IL VIZIETTO DELL'OCCIDENTE
Nei suoi 23 anni di Cremlino, Vladimir Putin è stato dato per finito innumerevoli volte. Questo perché non abbiamo capito che...
Nella foto sopra, quella a sinistra è una copertina di The Economist (Regno Uniti) del 2011: il titolo dice “L’inizio della fine di Putin”. Quella a destra, invece, è la Home page di Foreign Affairs (Usa) di pochi giorni fa, giugno 2023: il titolo dice “L’inizio della fine per Putin?”. In dodici anni l’unica differenza sta in quel piccolo punto interrogativo. Dodici anni per farsi venire un dubbio.
Sono solo due esempi dell’eterno vizietto dell’Occidente, particolarmente pronunciato quando si tratta della Russia. Quello di scambiare i desideri per realtà, le ipotesi per fatti. Due esempi, per essere sinceri, nemmeno tra i più clamorosamente sballati. Per il 2011, The Economist si riferiva alla cosiddetta Rivoluzione bianca, ovvero all’ondata di proteste che seguì le elezioni politiche, secondo molti osservatori russi ed esteri falsate da brogli a favore di Russia Unita, il partito putiniano. Foreign Affairs, invece, esamina la situazione in Russia dopo la fallita insurrezione di Evgenyj Prigozhin, fondatore e guida del Gruppo Wagner, il potente esercito mercenario che fino a poco tempo fa era un fedele strumento della politica del Cremlino. Potremmo però citare molti altri esempi di previsioni esagerate nello stesso senso. E dunque: perché succede?
La tendenza a giudicare Vladimir Putin e la sua struttura di potere alla stregua di quella di un Gheddafi o di un Saddam Hussein ci ha impedito, negli anni, di capire due questioni fondamentali della Russia post-sovietica. La prima è che Putin non è arrivato al Cremlino con un colpo di Stato e nemmeno con un colpo di mano. Ovvero, non ha conquistato il potere con la forza e non lo ha monopolizzato dopo essere arrivato al vertice per caso. Putin fu scelto per quel ruolo. Non il solo, ma il solo ad arrivare in fondo alla spietata selezione darwiniana esercitata dalla politica russa degli anni di Boris Eltsin. Guardando a quegli anni, tornano alla memoria i nomi di coloro che avrebbero forse potuto essere Putin e non lo furono: Sergej Kirienko, per esempio, per pochi mesi giovanissimo primo ministro; Sergej Nemtsov, che fu vice-premier; Sergej Stepashin, un accademico diventato politico, ministro della Giustizia, poi degli Interni e per tre mesi primo ministro. Toccò invece a Putin, che non aveva grandi carte da giocare e invece, a un certo punto, fu scelto da coloro che esercitavano il potere vero. Basta riguardare alla sua biografia per capirlo. Nel 1991 lascia il posto, piuttosto oscuro, di ufficiale del Kgb di stanza nella Germania Est e torna in Russia. quasi subito diventa, lui del KGB, assistente e poi vice di Anatolyj Sobciak, il sindaco ultraprogressista di San Pietroburgo. Nel 1996 Sobciak per le elezioni municipali e Putin viene chiamato a Mosca e diventa vice-capo del Dipartimento alle proprietà della Presidenza, nel 1997 diventa vice-capo del Personale presidenziale e consigliere di Stato, il più alto grado dell’amministrazione civile russa. Nel 1998 diventa capo dell’FSB (uno dei due rami dei servizi segreti russi) con il rango di ministro, membro del Consiglio di sicurezza e poi suo segretario. Nel 1999 diventa primo ministro e nel marzo del 2000 per la prima volta Presidente.
Si capisce bene che questa, oltre a non essere una carriera violenta, non è nemmeno una carriera normale. Era piuttosto una carriera preparata dai “poteri forti” dell’epoca, soprattutto dal momento in cui divenne evidente l’irreversibile declino di Boris Eltsin. Dietro l’ascesa di Putin, quindi, non c’era un qualche manipolo armato o il caso, ma la scelta degli ambienti che più contavano: all’epoca, i servizi segreti (che, con Jurij Andropov, avevano peraltro già agevolato l’ascesa di Mikhail Gorbaciov) e i leader dei movimenti riformisti. Una volta raggiunto e consolidato il proprio potere, Putin ha poi fatto prevalere i primi. I siloviki, gli uomini che dirigono i ministeri della forza (sila, in russo), cioè che dispongono di reparti armati: Difesa, Interni, i due rami dei servizi segreti, Emergenze. Putin prima o poi cadrà o se ne andrà, questo è certo. Ma a deciderlo non saranno. certo le manifestazioni di piazza o i colpi di testa di un signore della guerra, ma la volontà di quelle strutture che tanto contribuirono a sceglierlo e che, in questi anni, hanno deciso di tenerlo al vertice.
Il secondo elemento che molti esperti occidentali non riescono ad afferrare (o, più semplicemente, rifiutano di accettare), è che nella sua lunga permanenza al potere Putin ha sempre goduto di uno zoccolo duro di consenso spontaneo, non dovuto a brogli o leggi repressive o costrizioni assortite. Nessuno sembra ricordare, infatti, che prima del suo avvento al potere i russi avevano vissuto , dalla morte di Leonid Brezhnev (1982) in poi, due decenni di sconvolgimenti culminati nella perestrojka, nella fine dell’Urss e nel drammatico passaggio all’economia di mercato durante l’era Eltsin. In quel periodo, per fare un solo esempio, l’aspettativa di vita dei russi calò di 8 anni, in pratica fu una decimazione della popolazione.
L’arrivo di Putin al potere coincise con una sostanziale stabilizzazione dello Stato, che rischiava la disgregazione per le spinte centrifughe di molte Repubbliche (da quella armata della Cecenia a quella economica del Tatarstan e della Siberia), e con una ripresa altrettanto visibile dell’economia, ovviamente agevolata da una stagione di prezzi alti di gas, petrolio e altre materie prime. Il calo demografico, che ha brutalmente invecchiato la popolazione, e la fine di un lungo periodo di torbidi hanno creato quella che definivo una “base di consenso spontaneo” per Putin. Dirlo è sembrata un’eresia ma il tempo ha dimostrato la consistenza di questa tesi, fino al consenso plebiscitario che tutti i sondaggi registrarono all’epoca della riannessione della Crimea (2014).
È ovvio che i brogli e le pressioni in passato ci sono stati, com’è evidente che le leggi repressive approvate dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina hanno stravolto il rapporto tra autorità e popolo. Ma se non teniamo presente queste considerazioni, non capiremo mai perché Putin non cada. E soprattutto perché non cada quando farebbe piacere a noi.
Fulvio Scaglione